Denis Gaita (Psichiatra,
Psicoanalista, Milano)
Se è vero che ogni nuovo
pensiero, per essere tale, deve lasciare «sconcertati come un pesce da una
mela,» (Lacan 1959), se è vero che non c’è strumento di pensieri sconcertanti
analogo all’esperienza musicale, dunque, per sfiorarne l'essenza, è pertinente
un percorso labirintico, che oggi faremo in bizzarra compagnia: di Boezio,
Nattiez, Benviste, Einstein, Heidegger,Lacan, Jankélévitch e Bollas. La
sontuosità culturale dei riferimenti è puramente di utilità: per altri percorsi
ci avrebbero degnamente servito Matisse, Colette o Patty Pravo.
1. Sapere di che cosa si
tratta: il significato
Un musicoterapeuta, se mai
questa parola significa qualcosa, dovrebbe almeno sapere di che cosa si tratta
quando la musica parla. Con Boezio ( Musica Humana ), «chiunque scenda in
se stesso sa di che cosa si tratta.» La musica,quindi, è in diretto contatto
con qualcosa di me. Se quella melodia delle danze dell’Aida mi ricorda
un’estate dell’infanzia, e se sono capace di riconoscerlo, gran parte del
lavoro è già fatto. Ma «scendere» dove, e in quale «sé»? Qui ci può aiutare
Nattiez (1988): «un oggetto qualsiasi prende un significato per un individuo il
quale lo coglie quando mette quell’oggetto in relazione con certi settori del
suo vissuto, vale a dire con l’insieme degli altri oggetti che appartengono
alla sua esperienza del mondo». «Un oggetto qualsiasi»: dunque una frase musicale,
ma anche un passaggio o un profumo. «Per un individuo»: dunque si tratta di un tragitto
simbolico assolutamente soggettivo. «Lo coglie»: dunque, non lo pensa, o non lo
sogna, ma lo percepisce con una funzione imprecisata, tra la sintonia e
l’evocazione. E infine «mette quell’oggetto in relazione, ecc.»: dunque, nessun
oggetto porta significato in sé, ma solo se messo in relazione con altri
oggetti che appartengono all’esperienza del mondo della persona. Nattiez lo
dice ancor meglio:«c’è significato quando un oggetto è messo in relazione con
un orizzonte.» Allora, quella frase di Aida ha significato per me perchè
si è messa in risonanza con una mia estate infantile, segnata da un profumo di
gelsomino e da una salvietta che mi accoglieva all’uscita dell’acqua, sagome
segnate indelebilmente da affetti nella mia mente, e a cui quella melodia è in
un certo senso analoga (non è questo il luogo dove ripercorrere la mia teoria
della sagoma: v. per questo il mio "Il Pensiero del cuore"). Ma come
avviene questa comprensione? Qui ci può soccorrere Benveniste, per cui il semiotico
deve essere riconosciuto, il semantico deve essere compreso,
secondo, come chiosa Agamben (1978), due facoltà distinte dello spirito. Allora,
se individuo nella marcia trionfale dell’Aida i significati di guerra e
trionfo, compio un riconoscimento semiotico. Ma se quella pompa mi parla anche
della macchina del potere che schiaccia i destini degli umani, compio una
comprensione semantica. Siamo però ancora disorientati rispetto alla direzione
da prendere nel labirinto. Agamben ci ricorda i radicali mu e bha, da
cuiderivano mistero e favola. Dunque, da un lato ciò che si intuisce,
dall’altro ciò che si può raccontare. Ci siamo avvicinati un po’ di più
all’intrigo musicale, che mescola favole e misteri allegramente, e senza un
ordine possibile. Ma cerchiamo anche di non essere ingenui a questo proposito: non
esiste nessuna verità fatta di mistero che venga tradita dal suo snocciolarsi
in un racconto comprensibile. La storia non è che un transito da un polo
all’altro, e l’uno senza l’altro è mistica del mistero, o meccanica del discorso.
2. L’ascolto inconscio e
la necessità di dimenticare.
Dunque, alcune strutture
formali della musica si mettono in relazione, misteriosamente, con alcuni
contenuti mentali. Ma come? Einstein, in una famosa intervista del 1945, a proposito
della psicologia dell’invenzione, individua la scintilla che connette pensieri
non ancora pensati non nelle «parole, ma [in] qualcosa come segni e immagini da
combinare,» «elementi di tipo visivo, a volte muscolare». Segni, immagini,
visioni e gesti: sembra che al grado zero delle esperienze più feconde del
pensiero stiano sagome, immagini o tracce di movimenti. E, in musica, non
stupisce. Se quella melodia ascendente della Forza del destino si
associa irresistibilmente alla curva del braccio di mia madre, sarà perché la
sua sagoma formale è un simbolo perfetto, per me, per evocare la sagoma
affettiva, visiva e muscolare di un gesto importante nel mio orizzonte. Questo
è l’abbicì dell’ascolto musicale a livello profondo e questa è spesso la base
di partenza per libere associazioni musicoterapiche. Ma non prendiamoci troppo
sul serio: non solo nella musica non c’è solo questo (e quella melodia ha anche
significati drammatici, culturali,teatrali, vocali, ecc.), ma anche se cogliamo
questa analogia, che pure è fondamentale per la nostra ricchezza interiore, è
importante saperla dimenticare, per cogliere altri aspetti della stessa musica,
e soprattutto per poterla farla ascoltare ad altri senza che sia sopraffatta dai
nostri fantasmi. Dunque, in prima approssimazione, un musicoterapeuta deve
avere dimestichezza con l’ascolto inconscio, e con il suo oblio. Niente di
strabiliante: per essere colti, bisogna aver letto molti libri, visto molti
quadri e molto mondo, per poterli dimenticare come nozioni, per farli diventare
oggetti interni.
3. La musica e il Re del
mondo
Ma nella musica non c’è solo
un tragitto simbolico che va verso l’«interno di sé» di cui parlava Boezio. Da
sempre la musica sembra parlare di una verità trascendentale, qualcosa di simile
al «senso della vita» o delle cose di cui parlano i sentimentali e i cialtroni.
Certo, come dice Jankélèvitch (1983), la musica «dà da pensare». Ma a che cosa?
Alle braccia della mamma, o, attraverso l’evocazione di quelle, al mistero della
maternità e di lì dritto dritto al mistero dell’essere? Certo, quando
ascoltiamo la melodia pastorale della Sinfonia del Tell, non ci fermiamo tanto
sulle sue denotazioni svizzere e bucoliche, quanto siamo rapiti e pacificati da
una elegante pace che sembra in diretta comunicazione con il silenzio
sorridente della natura. Ma perchè? «Il pensiero deve poetare l’enigma
dell’essere. Esso porta l’aurora del pensato nella vicinanza di ciò che è da
pensarsi» dice Heidegger (1950). Siamo vicini non solo all’enigma della musica,
o a quello del nostro mondo interiore, ma addirittura a quello dell’Essere! Ascoltiamolo
ancora: «questo esserci è ciò che deve essere detto. Nel dire esso si volge all’uomo.
I più arrischiati sono coloro che dicono di più nel modo del canto. (...) Nel
loro canto si dispiega lo stesso spazio interiore del mondo, (...) l’opera del
cuore.» Allora, la musica,per il suo potere di farci quasi toccare con mano il
funzionamento primario della mente, ci illude di sfiorare l’ombelico del mondo?
Forse, anche se vedremo che Lacan, su questo, la saprà più lunga. Ma
soprattutto, come lo fa? «Nel modo del canto». Penso sempre più spesso che il
fatto musicale primario sia il canto, e che, se non trovo un qualche canto,
qualunque sia, in un brano musicale, non posso ascoltarlo. E, allo stesso modo,
che, se un esecutore non trova il canto di un brano, non è un buon esecutore.
La struggente frase del Quintetto di Schubert sembra veramente sfiorare il
mistero della vita, se ci passano paroloni da rotocalco, ma solo se la si
lascia cantare, cioè respirare, rubare, palpitare. Se cade in mano a giovani
strumentisti razionalisti, o ad anziani perfezionisti, è solo elegante, ma non
sfiora più un bel niente. Dunque, un musicoterapeuta, se si occupa di musica,
dovrà cimentarsi con il canto (è ovvio che qui non intendo solo il canto
vocale, ma la cantabilità profonda, la possibilità cioè di evocare sagome). Ma
come si giustifica tanto traffico simbolico, dal mio cuore al cuore
dell’essere? Ho perso ogni speranza di spiegarlo ai sordi, quindi non mi sogno
di giustificarlo secondo i modelli della scienza naturale. Piuttosto, ci sarà
utile qualcosa di molto lontano da quella, come la scienza storico-ermeneutica
della psicoanalisi, checché ne pensino i nuovi psicoanalisti neoscientisti. La
psicoanalisi dei nipotini di Winnicott ci parla di «vero Sé» quella di Bollas (1989)
di «conosciuto non pensato» in parte genetico, il nucleo di noi in parte
ereditato che attende l’esperienza per diventare l’irripetibile «idioma»
soggettivo. C’è quindi qualcosa, al fondo di noi, che tiene un posto di
partenza, di imprescindibile - come non pensarlo vicino al Re del Mondo? E la musica
ce lo titilla continuamente. Quando ne ritroviamo qualche traccia, conosciamo
l’esperienza estatica dell’estetica. Se il finale di Norma sembra
addirittura contenerlo, è per questo utile abbaglio. Dunque, chi incontra la musica
a qualsiasi titolo, deve essere disponibile all’estasi, perchè non può
sottrarsi a questa illusione ( terapeutica ) di verità assoluta.
4. La Cosa Musicale
Ma quale verità, siamo sempre
più vicini all’essenza del problema, che peraltro sembra sfuggirci di mano ogni
volta. E forse questo è il suo specifico, nel caso della musica. Ma non solo
della musica. Che cosa ci sembra dunque di ritrovare nell’ascolto, quando ci dà
l’estasi? Un ricordo privato, una verità universale o una magia? Qui dobbiamo
chiedere aiuto all’apodissi solo in apparenza burbera di Lacan (1959): «il fine
primo e più immediato dell’esame di realtà non è dunque quello di trovare nella
percezione reale un oggetto che corrisponda a ciò che il soggetto si
rappresenta al momento, bensì di ritrovarlo, di convincersi che è ancora
presente nella realtà». E ancora: «ciò che si tratta di ritrovare [è] quest’oggetto,
das Ding, in quanto Altro assoluto dal soggetto. Lo si ritrova tutt’al più come
rimpianto. Non è lui che si ritrova, ma le sue coordinate di piacere». C’è da
aver le vertigini. Dunque, la musica ci dà l’illusione di un riconoscimento, di
un ritrovamento, con il piacere, o l’estasi conseguente. Ritrovamento di che? Della
Cosa, la Cosa in sé, sì, quella di Kant. Ohibò, chi l’avrebbe detto che in
un’arietta stesse nascosto Dio? Eppure, è questa l’«allucinazione fondamentale»
che ci fa vivere, una tensione verso la Cosa, che è «il fuori significato.» E
questo è veramente troppo. Siamo partiti dal significato per trovarcene fuori?
Ebbene, sì. Ciò che ci muove verso qualcosa non è che il ritrovamento
dell’oggetto perduto, dal viso della madre al primo amore. E perduto lo è per definizione,
e per sempre, altrimenti non parleremmo e non avremmo simboli. Non ci resta che
cercarne tracce. Che cos’altro dice Orfeo in Che farò senza Euridice, se
non che «il grande, l’insoffribil dè mali è l’essere privi dell’unico dell’alma
amato oggetto» e che quindi non ci resta che allucinarlo in canto, e curare con
il canto questa mancanza. Non c’è solo la musica, è evidente, a far questo: intorno
alla Cosa si affaccendano l’Arte, la Religione e la Scienza: i pesci rossi di
Matisse, le parole sacre di Ibn Ata Allah e i neutrini sono approssimazioni
della Cosa. Ma, non solo non la toccheremo mai: la verità è che non è detto
che, in sé, sia bella o piacevole. Il Vero è spesso orribile. Il Bello ne parla
sopportabilmente. Per questo c’è il melodramma, per sfiorare in una apparente
festa teatrale una verità altrimenti intollerabile. Siamo disposti a sopportare
il tormento di Norma solo a patto che sia lenito da foreste di querce,
cori, lune su sfondi blu, roghi posticci e grandi soprano. «Il nostro occhio è
un po’ moscio – lo si masturba un pochino con la messa in scena». Un giorno,
quindi, abbiamo visto nel volto di nostra madre un assoluto, una sagoma che
sembrava in diretta comunicazione con la Cosa. Un altro giorno, prima o poi,
l’abbiamo perduto, e abbiamo dovuto cominciare il lungo lavoro di trasformarlo,
sostituirlo, insomma, il traffico simbolico che ci fa uomini vivi. Qualche
sera, questo lavoro ci è parso intollerabile, e la musica ci ha dato la
terapeutica illusione che la Cosa, il volto della madre, il senso, fosse lì, a
portata di mano. Anche l’analista, o il musicoterapeuta, mettono mano alla loro
missione impossibile con questa illusione, per poi abbandonarla, speriamo il
più presto possibile. L’analista deve scoprire che «non può desiderare
l’impossibile,» e il musicoterapeuta deve sapere che, in realtà, nella musica
in sé, in quel fatto a cui mette mano con dei pazienti, c’è poco più di nulla.
5. Il musicoterapeuta e la
Sostanza
Ci siamo persi nel labirinto?
Forse sì, ma credo utilmente. La musica pone una questione di significato, ma
in modi originalissimi e imprendibili. Si pone cioè in relazione diretta con
una nostra verità interiore e con una supposta Verità delle Verità. Questo
sistema di illusioni ci fa bene, è in qualche modo terapeutico, e ci allena a
una ginnastica mentale decisiva rispetto al senso di ciò che ci circonda. Faremo
bene, dunque, a usarla come strumento terapeutico, a condizione di non essere
ingenui. Non pensiamo, cioè, che l’inconscio sia un Dio sostanziale, o che la
Musica sia una Cosa. L’inconscio è un’utile finzione per cercare un contatto
con le nostre fibre. E la musica è un’utile illusione per lo stesso cimento.
Qua e là ci danno la certezza di avere toccato il point de caption, e questo ci
fa bene, ma dobbiamo sapere che è un’illusione. Se lo toccassimo, sul serio,
moriremmo all’istante, per troppa verità. Per questo, è bene fare musica con
tutti gli entusiasmi possibili, tranne quello di prenderla per una sostanza
miracolosa. Quando, come psicoanalisti, diamo un’interpretazione, non enunciamo
una Verità, ma un brandello di vero, in quel momento, per quella persona vicina
a noi. Così, quando lavoriamo con la musica sui pazienti, non travasiamo una
efficacia terapeutica della musica in sé in un malato, ma usiamo la musica come
terzo utile nella relazione terapeutica. Il percorso nel labirinto ritorna dove
era partito, ma forse con una disillusione e una sapienza in più. E’ dunque
decisivo, per il cosiddetto musicoterapeuta, poter avere un ascolto inconscio della
musica, poter avere confidenza cioè con le risonanze non consce che mette in
moto. Ma non certo per scambiarle per il significato della musica stessa. Sono
il significato per lui in quel momento. E, per lavorare sulla musica con altri,
deve contemporaneamente saperlo e dimenticarlo. Solo così potrà guidare altri a
cercare di mettersi in contatto con le proprie risonanze inconsce nell’ascolto
musicale. E solo così perderà l’illusione tossica che ci sia un inconscio
sostanziale e benefico, o che ci sia una musicoterapia come tale, nel senso di
una efficacia terapeutica della musica in sé. La musica in sé può essere
letale, come ci insegna Nietzsche su Wagner, o l’ampia casistica di direttori
d’orchestra che muoiono sul podio. E siccome non vogliamo veder morire nessun musicoterapeuta,
rassegnamoci all’evidenza che la musicoterapia, come tale, non esiste. Esiste,
invece, e lo vediamo dalla pratica quotidiana, la terapeuticità della relazione
con il paziente che ha come terzo (testimone, servo muto o parlante) la musica,
che ha il potere unico di farci sfiorare la Cosa, a patto che non la prendiamo
alla lettera.
Nessun commento:
Posta un commento